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La birra in cucina


Si dice che la dea della vita Ishtar, divinità di primissimo piano nel pantheon assiro-babilonese, traesse la sua potenza dalla birra, che nemmeno il dio del fuoco Nusku poteva estinguere. 


Non si sa con esattezza dove sia nata la prima birra: c’è chi parla di Mesopotamia, chi di Egitto, chi di isole Orcadi, chi addirittura di Malta.

E’ assai verosimile che il fenomeno della fermentazione sia stato scoperto casualmente in diverse parti del mondo più o meno nello stesso periodo.

Differenti però sono stati i modi di sviluppare la bevanda. La Mesopotamia per esempio è stata la terra che per prima ha visto sorgere la professione del birraio, cosa che in altre società meno organizzate sarebbe stata impossibile. Il prodotto delle sue fatiche rappresentava una quota della retribuzione dei lavoratori, che dunque veniva corrisposta in birra. Ma, si badi bene, non un birra, ma svariate tipologie, poiché già in quel periodo si distinguevano birre scure, chiare, rosse, forti, dolci e aromatiche. Inoltre si usavano nomi diversi per indicare birre prodotte con cereali differenti: le sikaru erano d’orzo, le Kurunnu di spelta. 

Dall’antico Egitto

Gli Egizi usavano, come nel caso dei Babilonesi, la birra per scopi propiziatori e sono innumerevoli le divinità che ebbero a che fare con questa bevanda. In una cosa erano diversi Egizi e Babilonesi: per i primi la birra era una vera e propria industria statale, per i secondi invece si trattava di un semplice prodotto artigianale. I faraoni stessi possedevano fabbriche di birra.

La Grecia non produceva birra, però ne consumava parecchia, soprattutto in occasione delle feste in onore di Demetra, dea delle messi, tra le quali ovviamente non poteva mancare l’orzo. Si trattava di prodotti d’importazione, per lo più fenici, ma anche durante lo svolgimento dei giochi olimpici non era ammesso il vino, per cui la bevanda alcolica per eccellenza di questa prima grande manifestazione sportiva, era la birra.

I celti e il medioevo

I Celti si erano stanziati principalmente in Gallia e in Britannia, ma la loro straordinaria civiltà, bagnata di birra fin dai primordi, venne sviluppata principalmente nella verde Irlanda.

Il Medioevo vide la birra protagonista soprattutto per merito dei monasteri, che operarono un decisivo salto di qualità nella produzione della bevanda introducendo anche alcuni nuovi ingredienti, tra i quali il luppolo. A questo proposito va detto che in tempi più remoti per l’aromatizzazione della birra si usavano svariati tipi di erbe, spezie o bacche. 

Anche in Gran Bretagna la birra, chiamata ale, venne usata nelle feste. In Inghilterra la birra diventò bevanda nazionale in quanto l’acqua usata per la sua produzione veniva bollita e sterilizzata. Ciò rappresentava un garanzia in un periodo in cui l’acqua era spesso infetta. Soltanto dopo il Rinascimento questa piaga cessò. Una curiosità: in Inghilterra il luppolo venne introdotto assai tardi nella birra nazionale, che continuò a chiamarsi ale, in contrapposizione dei prodotti continentali luppolati, detti beer. 

Dopo la scoperta dell’America

Nei tre secoli dopo la scoperta dell’America in tutta l’Europa andarono sviluppandosi numerose tipologie birrarie, tutte basate sull’unico sistema di fermentazione allora conosciuto, la alta. 

Verso la metà del secolo scorso però furono eseguiti studi specifici sul lievito e il loro risultato fu la produzione della birra a bassa fermentazione, che oggi è di gran lunga il più praticato nel mondo. Esso si giova di temperature più basse per fermentare, quindi usa impianti produttivi tecnologicamente assai più avanzati che in passato. Infine viene usato un lievito diverso rispetto alle birre tradizionali, il cosiddetto Saccharomyces carlsbergensis, che prende il nome dalla birreria danese che per prima ne isolò il ceppo. 

Ma di cosa è fatta?

La maggior parte della birra è composta da acqua, che è anche la materia prima disponibile con maggior abbondanza. Non per questo motivo è l’ingrediente più facile per la birrificazione, poiché se una birra è buona lo deve soprattutto all’acqua, che dev’essere pertanto dotata di virtù particolari. Quindi l’acqua distillata non va bene, perché il liquido in questione deve essere ricco di sostanze minerali e organiche nonché di microrganismi quali batteri, lieviti e altri ancora.

Oggi l’aromatizzazione della birra è affidata essenzialmente al luppolo, una pianta rampicante dioica, in cui cioè i fiori maschili e quelli femminili si sviluppano su piante diverse. A parte la Gran Bretagna, in tutti i Paesi si usano soltanto le piante femmine per la produzione della birra. Il motivo è presto detto: i fiori di queste piante femminili contengono la luppolina, una sostanza aromatica e resinosa.

La fermentazione della birra non sarebbe possibile se non esistesse un fungo benefico a farle da catalizzatore, il lievito.

In sostanza le sue proprietà si possono così riassumere: l’agglomerato di microrganismi fungiformi alla base del lievito è capace di trasformare le sostanze umide contenenti zucchero in alcol.

Attualmente esistono due grandi ceppi di lieviti: il Saccharomyces cerevisiae e il Saccharomyces carlsbergensis. Il primo viene usato per le birre tradizionali ad alta fermentazione, mentre l’ultimo è largamente praticato per i prodotti a bassa fermentazione, attualmente assai più diffusi. Il primo fungo, noto come lievito di birra, serve anche per la panificazione, mentre il nome del secondo è un omaggio al danese Jacob Christian Jacobsen, fondatore della Carlsberg, e grande studioso di microbiologia.

Il dopoguerra e l’esplosione dei consumi di birra

Per tutto il medioevo e sino all’inizio dell’era moderna propriamente detta, in Italia si era prodotta birra esclusivamente con metodi artigianali, per il raro consumo dei pochi estimatori. Si trattava di produzioni discontinue, legate a fattori strettamente temporanei e locali. La birra veniva vissuta, dal grande pubblico, come una bevanda tipica delle genti del nord, da sempre invasori dell’italico suolo e, come tali, da sempre nemici. Quella loro strana bibita, che nulla aveva a che vedere con il più noto ed apprezzato vino, non poteva quindi non essere guardata come minimo con sospetto. La birra si importava per lo più dall’Austria, retaggio della dominazione borbonica che influenza soprattutto il nord, ed era legata ad un uso elitario, mentre i consumi popolari confluivano essenzialmente sul vino, anche per ovvi motivi di minor costo e di più facile reperimento. 

Dobbiamo arrivare alla metà del secolo scorso perché finalmente anche in Italia sorgano le prime vere e proprie fabbriche, organizzate con moderni criteri di produzione industriale.

Giungiamo così alla Grande Guerra, e, per tutto il periodo bellico, cessa pressoché la produzione della bionda bevanda, essenzialmente per il fatto che la maggior parte del malto occorrente per la fabbricazione doveva essere reperito all’estero, essendo ancora insufficiente, oltre che di scarsa qualità, il malto di provenienza nazionale.

Con il finire della guerra ed il ritorno alla normalità, assistiamo ad una vera e propria esplosione di consumi.

Nel 1920 le fabbriche italiane sono soltanto 58, ma la produzione arriva alla ragguardevole cifra di 1.157.024 hl, ai quali si aggiungono soltanto alcune centinaia di ettolitri di birra importata. Crescono e si consolidano quelle aziende che, nel volgere di alcuni decenni, diventeranno le grandi realtà industriali del settore, come la Wuhrer di Brescia, la Dreher di Trieste, la Paskowski di Firenze e Roma, le Birrerie Meridionali di Napoli di proprietà dalla famiglia Peroni, la Pedavena di Feltre, la Poretti di Iduno Olona, la Moretti di Udine, la Wunster di Bergamo, alle quali fanno corollario una pletora di medio-piccole birrerie, come la Menabrea di Biella, la Icnusa di Cagliari,  la Birra d’Abruzzo di Castel di Sangro,  la Raffo di Taranto, la Forst di Merano.

I consumi raggiungono nel 1925 ben 1.569.000 hl

I consumi salgono ancora e, nel 1925, la produzione raggiunge 1.569.000 hl. Cresce anche l’importazione, fermandosi però a poco più di 30.000 hl. I consumi pro-capite toccano i tre litri e mezzo – molto distanti dai consumi del vino che superano invece i 150 litri – e fanno ben sperare per il futuro, vista la rapidità con la quale aumentano di anno in anno. 

A questo punto si scatena la reazione dei vinai che, di quel passo, temono di dover affrontare a breve una crisi del loro settore. Riescono quindi a far approvare dal Governo leggi protezionistiche a tutela dei loro interessi. Così, nel 1927, viene varata la legge Marescalchi la quale, con l’apparente scopo di favorire l’agricoltura, ma con la recondita speranza di peggiorare la qualità della birra, impone ai birrai l’immissione di un 15% di riso. Le tecnologie dell’epoca non consentivano infatti di sfruttare appieno tutte le caratteristiche positive del riso, e la qualità, anche se in minima parte, ne risentiva. Contemporaneamente si inaspriscono le tasse con l’aggiunta di una imposta straordinaria di ben 40 lire per hl. Ma non basta. La legge prevedeva inoltre una apposita licenza di vendita di “bassa gradazione” e ne limita lo smercio al dettaglio esclusivamente nei bar, trattorie e birrerie. I “vini e oli”, categoria di esercizi molto diffusa all’epoca, non possono vendere al minuto, ma solo all’ingrosso a casse intere.

L’effetto è immediato, ed i consumi scendono vorticosamente, non tanto per il livello qualitativo, che rimane comunque accettabile, quanto per l’inevitabile levitazione dei prezzi che pongono il prodotto fuori della portata delle masse popolari. 


Le ricette con la birra dall’antipasto al dolce!

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